Forme, spazio, colore: come la Luce plasma il mondo barocco
Fenomenologia barocca della Luce
La fenomenologia barocca della luce quale strumento significante, carico di contenuti spirituali e altamente simbolici, avente una straordinaria apertura nella pittura rivoluzionaria del Caravaggio, si pone in continuità con il revival controriformistico della “teologia della luce” che attingeva ad un’antica tradizione del misticismo cristiano.[1]
Ma la luce del Barocco è anche mezzo espressivo, che plasma le forme, ne modula l’aggregazione spaziale, mette in risalto le parti più significative, mentre ne avvolge altre nella penombra o le immerge nella tenebra più scura: il bianco e il nero, la luminosità assoluta e il suo contrario, manipolando la luce radente, quella incidente e il controluce, fino a moltiplicare gli effetti percettivi.
In architettura il ricorso a forme naturalistiche, “organiche” nel gergo specifico, dagli ovati al mistilineo delle piante di chiese e palazzi, alla flessuosità di cornici, modanature e membratura curvilinee, aiuta a modulare sapientemente l’incidenza della luce, senza forti contrasti, ma perseguendo una espressività che privilegia il chiaroscuro e la morbidezza dei passaggi al linearismo netto della pura geometria rinascimentale.
Anche il colore cambia con la luce, che anzi senza di essa sarebbe totalmente assente, esaltando le policromie materiche adottate dai maestri del Barocco in alternativa o in simbiosi al bianco dello stucco o del travertino, spesso da loro stessi privilegiato in interni ed esterni (Bernini, Borromini, Pietro da Cortona).
Non a caso Paolo Portoghesi nel suo insuperato volume sulla Roma Barocca (prima edizione 1964), che vede in quell’architettura la prima aspirazione alla libertà e all’innovazione, premesse al contemporaneo, individua nella “Forma-luce, materia e forma-colore” uno dei temi principali del Barocco.[2]
Casualmente o intenzionalmente la stessa simbologia araldica dei massimi committenti dell’arte del Seicento ha come motivo iconografico più o meno esplicito la suprema onda elettromagnetica: l’immagine del Sole con le api è l’emblema del pontificato di Urbano VIII Barberini (fig. 1); [3] nello stemma di Alessandro VII Chigi spicca la Stella ottagonale che domina i monti; in quello di Innocenzo X la colomba viene ad identificarsi con la luce della Grazia dello Spirito Santo; il monarca più potente del secolo, Luigi XIV, si faceva chiamare Le Roi Soleil.
Bernini maestro della luce
Bernini fu uno degli artisti che con maggiore spregiudicatezza seppe manipolare la luce reale a fini espressivi e metaforici, concatenandola alla scultura e all’architettura, tanto che è codificata dagli studi la definizione di “luce alla Bernina”, in riferimento ad una fonte luminosa nascosta e radente che modella le sue immagini miracolistiche introitandole di significati sovrannaturali.
Tale procedimento, adottato per la statua della Santa Bibiana sull’altare maggiore dell’omonima chiesa romana (1624-26) e più coerentemente nella Cappella Raymondi in San Pietro in Montorio (1640-47, fig. 2), raggiunge la sua espressione più coerente nella cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria (1647-51), ove la figura di santa Teresa è inondata da una radiazione salvifica che scende dalla cupoletta, filtrata da una vetrata decorata, a sua volta proveniente da una finestra (collocata in alto sulla parete esterna) attraverso una “camera di luce” nascosta. Per la prima volta i raggi, solidificati nelle stecche lignee dorate, si materializzano in forma (fig. 3).[4]
La statua de La Verità (Roma, Galleria Borghese), nuda con l’immagine solare che ostenta nella mano destra, è una vera e propria doppia allegoria di se stessa e della luce che scopre il vero e lo mostra a tutti con il favore del Tempo, figura presente nei disegni berniniani ma non realizzata (fig. 4). Come riporta Ripa “Tiene il Sole, per significare, che la Verità è amica della luce chiarissima, che dimostra quello che è. Si può ancora dire, che riguarda il Sole, cioè Dio, senza la cui luce non è Verità alcuna; anzi egli è l’istessa Verità; dicendo Cristo N. S. Ego sum Via, Veritas, & Vita”.[5]
Marcello Fagiolo si è soffermato sulla berniniana “fenomenologia della luce, più volte ripresa o emulata dagli artisti barocchi”, distinguendone la diversificate caratteristiche tipologiche nelle varie opere dell’artista, fino alla Cattedra e alla gloria del Trionfo del Nome di Gesù del Baciccio, ove “in entrambe le opere troviamo al centro la luce ineffabile della sapienza divina, e intorno cerchi di nuvole fulminate da violenti raggi solari”.[6]
Sandro Benedetti fa della luce, “quale elemento unificatore dell’intera composizione”, il perno della interpretazione comunicativa della Cattedra: “la luce riesce a divenire corpo unificante di tutta l’opera, reale soggetto creativo della composizione: tanto da invadere l’invenzione superiore e discendere nella parte bassa a sorreggere la Cattedra; che così è sospinta nello spazio (architettonico e storico) dello Spirito Santo. L’invenzione finale fa così regredire la primaria interpretazione teologica, che voleva la Cattedra sorretta dai Dottori” (fig. 5).[7]
La collegiata dell’Assunta di Ariccia, progettata da Bernini sulla piazza di Corte in parallelismo obliquo con Palazzo Chigi, a canalizzare con un cannocchiale prospettico aperto ad occidente la luce radente del sole al tramonto, è stata concepita come mistica della luce divina (fig. 6).
Un microcosmo, suggerito dall’aspirazione interna alla sfericità, vede la Grazia celeste scendere dal lanternino attraverso i costoloni-raggi della cupola, proseguire nei pilastri-raggi e convergere al centro del pavimento con le fasce-raggi verso la stemma di Alessandro VII, avvolgendo i fedeli nella luce salvifica (fig. 7).
Il tutto dominato dal colore-simbolo del bianco, mentre la Vergine è assunta in cielo in perenne contemporaneità ‒ come evento soprannaturale in atto ‒, nell’abside interamente affrescata illusionisticamente dal Borgognone, seguita da tutti i santi nelle pale delle cappelle. Un moto ascensionale continuo che coinvolge gli astanti devoti nelle sequela a Cristo.[8]
Proprio in merito al posizionamento delle statue per la loro illuminazione, lo stesso artista dichiarò a Monsieur de Chantelou durante il viaggio in Francia del 1665 che
“la luce dall’alto era così naturale e necessaria che, se la sera si prendeva una candela e la si metteva sul pavimento, si riconoscevano a stento le persone e perfino se stessi”.
La sua maniacale attenzione nel trovare un posizionamento adatto in relazione alla luce, sempre dall’alto, per il suo busto di Luigi XIV, è testimoniata dallo stesso nobile francese.[9]
Ma, come ricordava Maurizio Fagiolo dell’Arco, i risultati ottenuti in opere permanenti nascevano da sperimentazioni nel campo degli apparati effimeri, nello specifico nella progettazione di teatri delle Quarantore. Un Avviso per la cerimonia delle Quarantore tenuta presso la Cappella Paolina in Vaticano il 6 dicembre 1628, riporta che era stato montato
“un bellissimo apparato rappresentante la gloria del Paradiso risplendentissimo senza vedersi alcuno lume poiché vi stavano raccolte dietro alle nuvole più di due mila lampade accese inventione del Cavaliere Bernino Fiorentino Scultore et architetto celebre de nostri tempi”.[10]
Forse le più spettacolari applicazioni di effetti luministici nell’ambito della festa effimera erano gli annuali fuochi pirotecnici che si tenevano in Castel Sant’Angelo o le Luminarie allestite sulla cupola di San Pietro per la festa dei Santi Pietro e Paolo, tenute fino al 1938.[11]
Anche nel mondo teatrale il Bernini, che fu impresario, sceneggiatore, scenografo e attore, manipolò con maestria gli accorgimenti luministici, facendone spesso il perno degli effetti speciali delle sue invenzioni scenotecniche. La sua commedia detta Fontana di Trevi “ruota interamente intorno al ‘segreto’ della macchina della nuvola, inventata dal ‘macchinator’ Graziano” (Tamburini), cioè lui stesso.[12]
Come riportava il suo biografo Baldinucci:
“Fu il Bernino il primo, che trovasse la bella macchina della levata del Sole, della quale tanto si parlò, che Luigi XIII di G.[gloriosa] M.[emoria] Re di Francia glie ne chiese il modello, il quale egli subito gli mandò con una puntuale istruzione, ma nel fine di essa scrisse queste parole: Riuscirà, quand’io costà manderò le mie mani, e la mia testa”.[13]
D’altronde l’interesse in ambito romano per il fenomeno era ampio, se anche l’erudito gesuita Padre Athanasius Kircker, amico del Bernini, si dedicò a ricerche illuminotecniche pubblicate nel volume Ars magna lucis et umbrae in decem libros digesta (1646).
Borromini e la “luce guidata”
Paolo Portoghesi ha indagato in maniera approfondita il trattamento della luce quale vero e proprio strumento costruttivo da parte di Francesco Borromini nelle sue fabbriche, che non è luce universale o scenografica, ma “luce guidata”, finalizzata ad esaltare le virtualità percettive dell’architettura.
Nell’ambito dei dispositivi luministici borrominiani lo studioso, oltre alla “luce radente”, “il traguardo ottico”, “la linea luminosa” e “lo sfumato”, individua la “camera di luce”, cioè
“una cellula spaziale destinata a incanalare la luce in una data direzione o a ritardarne il flusso attraverso una serie di riflessioni che ne diminuiscono l’intensità e ne variano la qualità e la direzione”.
Tra le applicazioni più evidenti di tale procedimento espressivo-funzionale le camere di luce di San Giovanni in Laterano, che modulano e rallentano il flusso luministico nelle navate laterali (fig. 8). La luce radente invece “è spesso sfruttata da Borromini per sottolineare la trama grafica delle decorazioni e staccarla dal piano su cui si adagia”, mentre lo sfumato diventa espressivo del modellato, ammorbidendo i contorni di cornici e modanature, rendendo più graduali i passaggi tonali.[14]
San Carlino alle Quattro Fontane e Sant’Ivo alla Sapienza catalizzano tutti i dispositivi tecnici ed espressivi luministici borrominiani (figg. 9, 10), su cui si innestano nella chiesa del complesso universitario quelli simbolici come claritas indotta dalla Sapienza Divina resa allegoria dalla perenne fiamma lapidea che sovrasta il lanternino spiralato, cui si aggiunge con il completamento chigiano l’araldica stellare di Alessandro VII. Persino il monumentale portale bronzeo della Curia Iulia di età dioclezianea, proveniente dalla fabbrica nel Foro Romano, fatta smontare nel 1656 da Alessandro VII e restaurata da Borromini, viene tempestato di stelle esagonali e ottagonali in relazione alla simbologia chigiana e alla luce salvifica che l’ingresso nella basilica offre ai fedeli (fig. 11).
Cortona e la “luce incidente”
Tra le architetture di Pietro da Cortona, quella in cui la luce diventa protagonista assoluta, plasmando le forme in infinte gradazioni chiaroscurali grazie all’adozione generalizzata dello stucco monocromo, è la chiesa dei Santi Luca e Martina, suo capolavoro. La complessità degli incastri e degli intrecci formali viene risolta che incredibile maestria, attraverso una sapiente modulazione degli effetti luministici, attenuandone i contrasti in chiave di pittoricismo (figg. 12, 13).
E pensare che l’artista si considerava un architetto dilettante, come dichiarò nel 1646 in una lettera a Cassiano del Pozzo: “L’architettura poi mi serve solo per mio trattenimento”.[15]
Come sottolinea Karl Noehles:
“Tutte le strutture parietali (anche le pesanti decorazioni nelle volte) sono dipinte unitariamente in bianco; sotto la luce incidente che penetra da finestre appena percepibili l’involucro spaziale appare in chiaroscuro mosso e differenziato esperibile primariamente attraverso la vista. La sostanza architettonica viene in questo modo smaterializzata e resa illusionisticamente illimitata. Forse è lecito paragonare un tale concetto d’architettura con la cosmologia bruniana […]”.[16]
D’altronde anche in pittura il linguaggio cortonesco si esprimere attraverso una morbidezza materica neoveneta, che dissolve nel colore le forme senza tuttavia annullarle. La luce, che nella sua arte è motivo vivificante, trova nella volta di palazzo Barberini con l’Allegoria della Divina Sapienza, modello di tutte le volte barocche, la sua espressione più alta (fig. 14).
Come scrivevo, è soprattutto il concetto di spettacolo grandioso, pervaso di festosa ed esaltante luminosità, volto alla massima glorificazione di un tema religioso o araldico attraverso i mezzi più spericolati del virtuosismo pittorico ed illusionistico, che diventa patrimonio comune della decorazione illusionistica successiva. Un motivo che a guardare bene era estraneo persino a Lanfranco. Anche Baciccio nella volta del Gesù non ignora lo straripare della parte animata dell’apoteosi barberiniana oltre le ornamentazioni simulate, con le figure dei giganti che rovinano in basso, e più in generale l’impeto invettivo che caratterizza l’affresco cortonesco. È la forza del coinvolgimento emotivo che illustra un’azione in atto e non una iper-realtà semplicemente da contemplare, pur sempre soprannaturale ed estatica.[17]
Baciccio e Andrea Pozzo: la luce della Chiesa Trionfante
La pittura decorativa del Barocco romano ha come tema centrale la “Chiesa Trionfante”, cioè l’esaltazione del successo universale del Cattolicesimo attraverso la sua diffusione ad opera principalmente della Compagnia di Gesù, ma anche di altri ordini religiosi missionari.[18]
L’aspetto trionfalistico delle decorazioni, incentrate sui motivi dell’apoteosi e della gloria, si estende anche alla decorazione privata in tutta Europa, volta alla glorificazione di principi e sovrani. La luce, che avvolge santi, beati e condottieri, diventa il motivo unificante della composizione e strumento celebrativo della loro magnificazione quali eroi cattolici.
Baciccio è stato sicuramente il più grande decoratore e freschista tardo-barocco, quando dopo la morte di Pietro da Cortona nel 1669 assunse un ruolo egemone nel settore. La più prestigiosa commissione della sua carriera fu l’intera decorazione della Chiesa Madre della Compagnia di Gesù, uno dei più importanti monumenti religiosi della Controriforma, ove è sepolto il suo fondatore sant’Ignazio da Loyola.[19]
Nel Trionfo del Nome di Gesù (fig. 15), dipinto sulla volta con la consulenza di Padre Giovan Paolo Oliva, Generale dell’ordine, e del Bernini, il Baciccio rappresenta l’irrompere all’interno della chiesa, attraverso la luce scaturita dal simbolo cristologico gesuita (JHS), della moltitudine che popola i cieli, entrata attraverso l’apertura della volta e sospesa appena al di sotto di essa; il cielo è sceso sulla terra e il paradiso è molto più vicino di quanto si possa immaginare, grazie alla speranza di salvezza offerta dal Cristo.
La propensione scenografica e scenotecnica del barocco berniniano, trova qui una delle più spettacolari e compiute applicazioni, attraverso l’ausilio di una tecnica sofisticatissima, capace di tradurre in immagini e forme di forte impatto emotivo le idee del progettista e del suo committente. Nella parte bassa, invadendo ancora lo spazio del soffitto, una congerie di personaggi che precipitano, tra dannati, demoni, allegorie di vizi e peccati. L’illusionismo della rovinosa caduta nell’abisso di questa moltitudine, precipitata nel buio del peccato, viene rafforzato dall’ombra delle nubi dipinta sulla decorazione, sopra i rilievi e sulle scultore degli angeli ‒ un geniale suggerimento del Bernini ‒, mentre l’effetto della luce introdotta dai finestroni della navata, viene simulato dalla trasparenza delle nubi che si schiariscono nella parte inferiore.
Baciccio è protagonista della naturale evoluzione del barocco berniniano verso il rococò e di quelle novità nella grande decorazione illusionistica che saranno fatte proprie in tutta Europa da artisti quali Luca Giordano, Corrado Giaquinto, Sebastiano Ricci e Giambattista Tiepolo.
Uno dei vertici estremi della pittura decorativa del Barocco romano è la decorazione della chiesa di Sant’Ignazio da parte del gesuita Andrea Pozzo, che prosegue l’architettura della navata nello spazio illusorio, con il ricorso ai mezzi scientifici della prospettiva architettonica, combinando spunti compositivi ed iconografici del pittore genovese (che si era avvalso della sola prospettiva aerea), con una sua originalissima visione spaziale e decorativa, sempre improntata alla medesima ricerca di spettacolarità e forte coinvolgimento emotivo del riguardante: la scienza al servizio dell’arte e della Chiesa (fig. 16).[20]
FRANCESCO PETRUCCI Ariccia, 27 Settembre 2020
NOTE
[1] I. Lavin, Bernini. L’unità delle arti visive, Roma 1980, p. 115, nota 6.
[2] P. Portoghesi, Roma barocca, Nuova edizione riveduta e ampliata con foto a colori di Moreno Maggi, Inventario degli architetti e delle loro opere di Stefania Tuzzi, Roma 2011, pp. 100-102.
[3] Cfr. J. Beldon Scott, Images of Nepotism: The Painted Ceilings of Palazzo Barberini, Princeton Univeristy 1991; id., Galileo and Urban VIII. Science and allegory at Palazzo Barberini, in I Barberini e la cultura europea del Seicento, Atti del convegno internazionale, a cura di L. Mochi Onori, S. Schűtze, F. Solinas, Roma, Palazzo Barberini, 7-11 dicembre 2004, Roma 2007, pp. 127-136.
[4] Cfr. I. Lavin, 1980, pp. 35-38, 113-116.
[5] C. Ripa, Iconologia, tomo V, Perugia 1767, p. 360.
[6] Cfr. M. Fagiolo, Il gran teatro della Roma barocca, in Roma Barocca. Bernini, Borromini, Pietro da Cortona, catalogo della mostra, a cura di M. Fagiolo, P. Portoghesi, Roma, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, Milano 2006, p. 64.
[7] Cfr. S. Benedetti, La metafisica del mondo nell’architettura di G. L. Bernini, in Barocco romano e Barocco italiano. Il teatro, l’effimero, l’allegoria, a cura di M. Fagiolo, M. L. Madonna, Roma 1985, pp. 73-87, in part. p. 85.
[8] Per tale lettura cfr. F. Petrucci, Santa Maria Assunta collegiata insigne ed altre chiese minori in Ariccia, Ariccia 1987, pp. 65-81.
[9] Cfr. Paul Fréart de Chantelou, Journal, in D. Del Pesco, Bernini in Francia. Paul de Chantelou e il Journal de voyage du cavalier Bernin en France, Napoli 2007, pp. 201-495 (I traduzione italiana), pp. 307, 409.
[10] Cfr. M. Fagiolo dell’Arco, S. Carandini, L’effimero barocco. Strutture della festa nella Roma del ‘600, 2 voll., II, pp. 8, 88; M. Fagiolo dell’Arco, Corpus delle feste a Roma /1. La festa barocca, Roma 1997, p. 270.
[11] Cfr. M. Fagiolo, M. L. Madonna, Corpus delle feste a Roma /2. Il Settecento e l’Ottocento, Roma 1997; La Festa a Roma dal Rinascimento al 1870, catalogo della mostra, a cura di M. Fagiolo, Roma, Palazzo Venezia, Torino 1997.
[12] Per l’attività teatrale del Bernini vedi E. Tamburini, Gian Lorenzo Bernini e il teatro dell’Arte, Firenze 2012 e con riferimento anche alla tematica della luce, pp. 119-120.
[13] F. Baldinucci, Vita del cavaliere Gio: Lorenzo Bernino scultore, architetto, e pittore, Firenze 1682, p. 77.
[14] Cfr. P. Portoghesi, Francesco Borromini, Milano 1989, pp. 394-396; id., Concordia discors, in Roma Barocca. Bernini, Borromini, Pietro da Cortona, catalogo della mostra, a cura di M. Fagiolo, P. Portoghesi, Roma, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, Milano 2006, pp. 49-51.
[15] Cfr. P. Portoghesi, 2011, p. 243.
[16] Cfr. K. Noehles, La chiesa dei santi Luca e Martina: dal prebarocco al barocco maturo, in Roma Barocca. Bernini, Borromini, Pietro da Cortona, catalogo della mostra, a cura di M. Fagiolo, P. Portoghesi, Roma, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, Milano 2006, p. 220.
[17] Cfr. F. Petrucci, Il Barocco Romano: da Ariccia a Lecce, in Dipinti del Barocco romano da Palazzo Chigi in Ariccia, catalogo della mostra, a cura di F. Petrucci, Cavallino di Lecce, Palazzo Ducale dei Castromediano, Roma 2012, pp. 15-33, in part. p. 23.
[18] Sull’argomento vedi l’ottimo saggio di R. Enggass, The Church Triumphant, in The painting of Baciccio Giovanni Battista Gaulli 1639-1709, University Park, Pennsylvania 1964, pp. 54-67.
[19] Sul pittore cfr. R. Enggass, 1964; F. Petrucci, Baciccio, Giovan Battista Gaulli 1639-1709, Roma 2009.
[20] Tale parte del saggio rielabora F. Petrucci, Il Barocco Romano…, 2012, pp. 30-32.
Articolo pubblicato anche su: www.aboutartonline.com